L’esempio di san Giovanni Crisostomo contro la disperazione dei nostri tempi

recensioni Spiritualità Vite di santi

- a cura di Oreste Paliotti, Città Nuova21 Novembre 2024.

Sacerdote della Chiesa ambrosiana, Michele Di Monte dal 2014 ha ricevuto l’abito e la consacrazione come eremita diocesano. Da allora vive in Alta Valsassina a Lornico di Vendrogno (Lecco), nel piccolo eremo degli Angeli che lui stesso ha ricavato da un rustico abbandonato. Lì conduce una vita di penitenza, preghiera e lavoro, ma non di assoluta solitudine: «È proprio vero che quanto più ci si avvicina a Dio, tanto più si trovano fratelli. C’è sempre, infatti, chi ricorre a me per un consiglio, una confessione, o viene a portarmi qualcosa da mangiare. A questi incontri ho dovuto riservare due ore pomeridiane in una giornata già piena di preghiere, letture, meditazioni e tante cose da fare». Sì perché padre Michele si dedica – è il suo lavoro – a tradurre opere del tesoro spirituale d’Oriente e d’Occidente. Ultima tra le sue numerose pubblicazioni, La divina provvidenza di san Giovanni Crisostomo, in prima traduzione italiana per i tipi delle Edizioni Monasterium.

Il motivo di questa scelta? L’oggi in cui viviamo, denso di nubi tempestose, di conflitti, ingiustizie e soprusi, in cui sembra che il male abbia a prevalere – di qui il forte senso di smarrimento che l’eremita coglie spesso in coloro che lo frequentano – sollecita risposte che vengano dalla fede, dall’esperienza dei santi e dall’autorevolezza delle Scritture. In effetti – commenta padre Michele – occorrono occhi nuovi, occhi spirituali, per «vedere la mano di Dio che conduce gli uomini per i sentieri spesso scoscesi e ripidi della storia». E il Crisostomo, tempra di lottatore e testimone fino all’ultimo, vissuto in uno dei periodi più turbolenti della Chiesa in Oriente tra contrasti e persecuzioni che gli procurarono l’esilio e la morte per stenti, si qualifica tra i maestri di spirito più adatti a ridare coraggio e motivi di speranza anche ai cristiani di oggi, turbati e tentati nella fede.

Fin da quando nel 398 venne consacrato vescovo di Costantinopoli, il Crisostomo si mostrò intransigente avversario degli eretici e dei corrotti, sia tra i fedeli a lui affidati, sia tra i membri del clero e perfino nella stessa famiglia imperiale. Amato dai poveri come un padre, ma osteggiato dai potenti, dopo svariati tentativi di questi per rimuoverlo dalla sua cattedra, sperimentò nel 404 un primo breve esilio per ordine dell’imperatore bizantino Arcadio. Dopo appena due mesi dal suo rientro, colpevole di aver criticato le feste in onore della statua che l’imperatrice Eudosia si era fatta erigere davanti alla cattedrale di Santa Sofia in quanto disturbavano i divini misteri, subì un processo farsa col quale venne definitivamente esiliato a Cucuso, un piccolo borgo sulle catene montuose della Cappadocia.

Durante il percorso a piedi di 70 giorni per giungere fin lassù, Crisostomo si ammalò e il soggiorno in quel clima a lui inadatto finì per debilitarlo. Siccome però continuava a ricevere visite dei suoi più affezionati discepoli, nel 407 per ordine imperiale ebbe in sorte un più duro esilio a Pitiunte, sulla costa orientale del Mar Nero. Morì prima di arrivarvi, facendo tappa a Comana Pontica, anche a causa dei maltrattamenti ricevuti dai soldati di scorta. Era il 14 settembre di quel medesimo anno. Le sue ultime parole furono «Gloria a Dio in tutte le cose», preghiera a lui cara.

Ed ora? Nonostante siano trascorsi più di 1600 anni dalla morte dell’insigne dottore della Chiesa, il testo qui considerato – quasi farmaco composto per rianimare i suoi fedeli disorientati e addolorati per la triste sorte toccata al loro pastore – indirizza anche a noi contemporanei, oppressi e forse scandalizzati dai mali dilaganti, una parola di incoraggiamento e di speranza; non tanto con l’eleganza dello stile letterario che lo rese famoso, neppure per gli esempi tratti dalle Scritture a conferma che davvero ogni capello del nostro capo è contato e perfino nelle situazioni più oscure Dio resta con noi senza abbandonarci; quanto perché – osserva padre Michele – l’opera «non fu composta al termine dei dolorosi eventi che lo avevano travolto[…], ma proprio mentre vi era ancora completamente immerso. Più che un trattato, è un Cantico, simile a quello dei Tre fanciulli nella fornace di Babilonia, che seppero innalzare il loro canto di lode cosmica non a pericolo scampato, non dopo anni di distanza da quel tragico evento, ma tra le fiamme, nell’istante stesso in cui si trovavano nel ventre di fuoco dell’orribile drago della morte, consapevoli che Dio non salva e non ci libera semplicemente dalle fornaci, ma nelle fornaci».

Stupisce, in questo trattato, la sobrietà con cui l’autore accenna al suo personale calvario, preso com’è unicamente dall’ansia di essere utile al suo gregge. Come quando afferma, unico accenno alla sua esperienza attuale: «Quando vedi la Chiesa dispersa, sottoposta alle più grandi prove, i suoi eminenti membri aggrediti e flagellati, la sua guida allontanata, considera non soltanto queste cose, ma anche il risultato che ne verrà: i premi, i compensi, i riconoscimenti, le approvazioni. ”Chi persevererà sino alla fine sarà salvato”».

Fiducia in Dio, dunque, senza pretendere di investigare i suoi disegni, fiducia senza limiti nella sua provvidenza proprio quando siamo immersi nella tribolazione e non vediamo una via di uscita. Come avvenne ai Tre nella fornace del racconto biblico e come avvenne, appunto, a Crisostomo. Questo il messaggio che ci viene dal santo vescovo. Per questo il traduttore e curatore padre Michele ha voluto apporre all’opera che il grande vescovo di Costantinopoli ci ha lasciato il sottotitolo: Un Cantico contro la disperazione dei nostri tempi.


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