Avvenire recensisce "Paterikon delle Gallie"

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I santi “di provincia” narrati da Gregorio di Tours

Nato a Clermont Ferrand nel 538 (o 539), Giorgio Fiorenzo Gregorio fu vescovo di Tours dal 573 sino alla morte, che lo colse nel 594. E proprio dalla sua sede episcopale egli prese il nome con cui è passato alla storia, Gregorio di Tours appunto. Sebbene provenisse da una famiglia assai influente e ben inserita nella gerarchia ecclesiastica – ricevette la prima educazione dallo zio Gallo, vescovo di Clermont, e dal prozio Nicezio, vescovo di Lione – Gregorio non possedette una preparazione culturale ampia e approfondita, ma fu dotato di un’ottima vena letteraria, come testimoniano le opere che di lui conosciamo. Tra esse spicca il De vita patrum, o Liber vitae patrum, di recente pubblicata a cura di Alberto Maria Osenga (Gregorio di Tours, Paterikon delle Gallie. Tra foreste e monasteri nella Francia dei primi secoli, Monasterium, pagine 176, euro 16,00). Si tratta di una raccolta di biografie (questo il significato del termine di origine greca paterikon), in tutto venti, di santi della Gallia, alcuni dei quali conosciuti personalmente dall’autore. Il curatore sottolinea il forte legame tra lo scritto gregoriano e il territorio nel quale hanno vissuto i santi di cui viene narrata la vita. Scrive Osenga al riguardo: «Ci pare proprio questo l’intento di Gregorio di Tours, che raccogliendo queste storie si fa cantore di quell’Auvergne austera e montuosa, riparo di pastori, monaci e uomini in cerca di luce e di una possibile salvezza». D’altro canto, è Gregorio stesso a intendere e presentare le vite dei santi come modelli straordinariamente utili per coloro che desiderano camminare sulla via della fede. Così egli si esprime nel Prologo: «Avevo deciso di scrivere solo dei miracoli avvenuti presso le tombe dei santi martiri e confessori, ma poiché ho recentemente scoperto alcuni fatti relativi a questi uomini, portati in cielo dalla loro beata forma di vita, ho pensato di rendere nota la loro esistenza attraverso questi racconti, affinché potesse essere di edificazione per l’intera Chiesa». Ecco allora scorrere sotto gli occhi del lettore le storie di Illidio e Quinziano, di Patroclo e Friardo, di Clappano e Lupicino, di Venanzio e Leobardo e di altri uomini di Dio, tutti accomunati da una fede solida e da una volontà sincera di vivere il Vangelo. «Questi santi di Gallia – conclude Osenga – vengono ad abitare i territori iper-rurali del nostro cuore, vengono a ringiovanire il fortissimo invecchiamento della nostra fede, ci richiamano all’urgenza di una comunità per uscire dall’isolamento, a riconoscere la grazia nascosta che abita la povertà e quindi a dimorarvi santamente. Sono un elogio della provincia, che sa trasfigurarsi in boscoso anticipo di paradiso, quando abitata dalla presenza del Cristo, nostro amico e nostro guaritore». Certamente, la scrittura di Gregorio non è caratterizzata dall’uso di modelli stilistici classici: quello di cui egli si serve è un sermo rusticus, privo di finezze ma molto comprensibile, adatto dunque a farsi capire dal maggior numero di persone possibile: non per caso i suoi libri conobbero un notevole successo in epoca medievale.

A firma di Maurizio Schoepflin, Avvenire, 25 maggio 2024.


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