
All’inizio fu sant’Antonio Abate, morto ultracentenario nel 356, il quale, come narra il suo biografo Atanasio, "trovata oltre il fiume una fortezza deserta e piena di serpenti a causa del tempo trascorso, lì si stabilì e si mise ad abitare in essa. I serpenti subito si ritirarono, come se qualcuno si fosse messo a cacciarli; egli, chiusa l’entrata e messi da parte pani per sei mesi, avendo acqua all’interno, se ne restava da solo, come sprofondato nei penetrali di un santuario, all’interno del romitaggio, senza uscire e senza vedere nessuno di quelli che venivano. Dunque per molto tempo continuò a praticare così l’ascesi, ricevendo i pani solo due volte all’anno dal tetto".
Antonio visse così per vent’anni, facendo per primo l’esperienza estrema della reclusione volontaria: altri lo hanno seguito, in Oriente come in Occidente; fra loro, Grimlaico, autore del volume curato da padre Michele Di Monte, Senza che si oda la loro voce. Regola per eremiti. Di lui abbiamo scarse notizie: probabilmente era originario della zona di Reims, in Francia, e visse fra IX e X secolo, trascorrendo una parte cospicua della propria esistenza rinchiuso in una cella accanto a un monastero di cui non è possibile l’identificazione.
Il testo di Grimlaico si compone di 69 capitoli, nei quali vengono tratteggiate le caratteristiche della vita eremitica, a partire dalla vocazione fino alla sua durata. Numerosi i riferimenti a fonti patristiche e monastiche. In particolare, l’autore mostra una profonda ammirazione per la Regola di San Benedetto che, annota padre Di Monte, "costituisce l’ossatura attorno a cui egli compone la sua regola per reclusi". Ma soprattutto a Grimlaico sta a cuore la radicalità della scelta eremitica: "I precetti che vengono dati ai monaci e a coloro che rinunciano a questo mondo – egli scrive – sono molto più alti di quelli dati ai fedeli che conducono una vita normale nel mondo".
Preghiera, lettura e lavoro saranno i cardini dell’esistenza dell’autentico servo di Dio che ha scelto la solitudine, "perché pregando siamo purificati, leggendo veniamo istruiti, e con la fatica del lavoro stanchiamo il corpo, in modo che non diventi orgoglioso". Come colui che ha messo mano all’aratro non deve volgersi indietro (Lc 9, 62), così al solitario è richiesto di non venire meno all’impegno preso: "Dopotutto – conclude Grimlaico – non è l’inizio di un buon lavoro che cercano i solitari, ma la fine, perché è su come si finisce che ognuno di noi sarà giudicato".
Maurizio Schoepflin
Articolo tratto da Avvenire, 22 gennaio 2021
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Anticamente, agli inizi della vita monastica, il termine monachos designava l’eremita che viveva solitario in un monasterion (monasterium in latino), cioè in un romitorio.
«Il monaco – diceva san Macario il Grande (+390) –, viene chiamato monaco perché notte e giorno conversa con Dio e contempla solamente le cose sue, non possedendo niente sulla terra».
Il nome Monasterium, dunque, rimanda alla separazione dal mondo e dalla cose effimere che gli appartengono e, al tempo stesso, al luogo della conversazione intima con Dio.
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